TRIBUNALE ORDINARIO DI BERGAMO 
                           Sezione lavoro 
 
    Il Giudice del lavoro di  Bergamo,  dott.ssa  Monica  Bertoncini,
nella causa iscritta al n. 107/19 R.G., sul ricorso depositato il  18
gennaio 2019 nella controversia promossa da C. C. J. ,  rappresentata
e difesa dagli avv.ti A. Guariso del foro di Milano e I.  Traina  del
foro  di  Bergamo,  in  virtu'  di  mandato   allegato   al   ricorso
introduttivo del giudizio, ricorrente; 
    contro Comune di Bergamo, rappresentato e difeso dagli avv.ti  V.
Gritti e S. Mangili come da procura allegata alla memoria  difensiva,
convenuto; 
    contro Inps, rappresentato e difeso dall'avv. A. Imparato come da
procura allegata alla memoria di costituzione, convenuto. 
    Il Giudice, sciogliendo la riserva  assunta  all'udienza  del  25
giugno 2019, sul ricorso promosso  ai  sensi  dell'art.  28,  decreto
legislativo n. 150/2011, osserva quanto segue: 
        la ricorrente, cittadina boliviana soggiornante in Italia dal
2010, il 6 marzo 2018 ha presentato domanda cartacea  finalizzata  ad
ottenere il reddito di inclusione. 
    Tale domanda e' stata respinta dal Comune di Bergamo, non essendo
stata inoltrata con modalita' telematiche,  nonche'  per  il  mancato
possesso del permesso di lungo periodo. 
    La C. C. ha chiarito di non essere stata in grado  di  presentare
la domanda telematicamente, in quanto il sistema non le consentiva di
procedere se non  dichiarando  (falsamente)  di  essere  titolare  di
permesso di lungo periodo. 
    La ricorrente, nel riferire di essere  in  possesso  di  tutti  i
requisiti  previsti  dal  decreto   legislativo   n.   147/2017   per
beneficiare del reddito di inclusione, ad eccezione del  permesso  di
lungo   periodo,   eccepiva   in   questa    sede    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 3  decreto  legislativo  n.  147/2017  nella
parte in cui prevede che i cittadini di nazionalita' extra UE debbano
essere titolari, per  l'accesso  al  beneficio,  di  un  permesso  di
soggiorno di lungo periodo. 
    Il Comune di Bergamo, costituitosi in giudizio, nel ribadire  che
la domanda era stata respinta in quanto non  presentata  mediante  lo
sportello web, nonche' per il mancato  possesso  di  un  permesso  di
soggiorno di lungo  periodo,  contestava  la  riconducibilita'  della
prestazione alla direttiva 2011/18, in quanto la finalita' (contrasto
alla  poverta')  della  norma   incriminata   non   sarebbe   inclusa
nell'elenco dei rischi di cui all'art. 3 del regolamento n. 883/2004. 
    Secondo  il  Comune,  pure  la  discrezionalita'   con   cui   la
provvidenza viene attribuita, conservata e  revocata  osterebbe  alla
sua riconduzione nell'alveo delle prestazioni  di  sicurezza  sociale
definite dalla giurisprudenza della CGUE. 
    L'INPS,  costituitosi  a  sua  volta  in  giudizio,   dopo   aver
preliminarmente eccepito l'inammissibilita' del  ricorso,  negava  la
sussistenza della dedotta illegittimita' costituzionale della norma. 
    In proposito, l'Inps, nel chiarire come il reddito di  inclusione
sia «misura unica a livello nazionale di contrasto alla  poverta'  ed
all'esclusione sociale», ricordava  come  la  direttiva  2011/98  non
fosse  stata  recepita  dall'ordinamento   italiano   e   non   fosse
applicabile, in quanto non munita del carattere di auto-esecutivita'. 
    L'Inps escludeva comunque che  il  reddito  di  inclusione  fosse
riconducibile nell'alveo dell'art. 12 della  direttiva  2011/98,  non
appartenendo all'elenco dei rischi dell'art. 3  del  regolamento  CEE
833/04, anche in considerazione del fatto che il  suo  riconoscimento
presentava elementi di discrezionalita',  essendo  condizionato  alla
sottoscrizione di un progetto personalizzato, secondo  la  previsione
dell'art. 6, decreto legislativo n. 147/2017 definito a seguito della
valutazione  multidimensionale  del  bisogno  e  che  doveva   essere
sottoscritto da tutti i componenti del nucleo familiare.  Tutto  cio'
premesso, si osserva: 
        va innanzi tutto ritenuta ammissibile l'azione proposta dalla
ricorrente, dovendosi sul punto evidenziare che si tratta  di  azione
contro la discriminazione e non di azione in  materia  previdenziale,
con  conseguente  inapplicabilita'  della  disciplina  di  cui   agli
articoli 409 e 442 ss. del codice di procedura civile. 
    La domanda della sig.ra C. C. ha ad oggetto l'accertamento  della
discriminazione, la sua cessazione, la  rimozione  degli  effetti  e,
quale conseguenza di cio', l'erogazione della prestazione, che quindi
rappresenta lo strumento di rimozione degli  effetti  della  condotta
ritenuta discriminatoria, per cui correttamente e' stato attivato  il
procedimento di cui all'art. 28, decreto legislativo  n.  150/2011  e
non l'ordinaria azione di cui agli articoli  409  e  442  e  ss.  del
codice di procedura civile. 
    Non osta, poi, all'ammissibilita' del ricorso il  fatto  che  sia
stata data applicazione ad una norma di diritto positivo in quanto la
nozione di discriminazione accolta dalla normativa  europea  e  dalla
legislazione nazionale e' di tipo oggettivo e ha riguardo all'effetto
pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi,
atto, patto o comportamento, indipendentemente  dalla  motivazione  e
dall'intenzione di chi li pone in essere. 
    Per la soluzione della controversia e' dirimente la questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera  a),  punto
1), decreto legislativo n. 147/2017 (vigente ratione temporis)  nella
parte  in  cui  limita  soggettivamente  l'accesso  al   reddito   di
inclusione, ai cittadini  dell'Unione  o  loro  familiare  che  fosse
titolare  del  diritto  di  soggiorno  o  del  diritto  di  soggiorno
permanente, ovvero ai  cittadini  di  paesi  terzi  in  possesso  del
permesso  di  soggiorno  UE  per  soggiornanti  di   lungo   periodo,
escludendo gli stranieri in possesso di  permesso  di  soggiorno  per
motivi di lavoro (o per altri motivi). 
    Per  quanto   attiene   alla   rilevanza   della   questione   di
costituzionalita', occorre chiarire come  non  siano  in  discussione
tutti  gli  altri  requisiti  per  l'accesso  al  beneficio,  essendo
controversa solo l'aspetto  inerente  all'estensione  soggettiva  del
beneficio medesimo, posto che la ricorrente, non cittadina  italiana,
ne' comunitaria, e' priva di permesso di soggiorno di lunga durata. 
    La ricorrente, al momento della domanda, risultava  residente  in
Italia, in via continuativa,  da  almeno  due  anni  e  sussistevano,
altresi', il requisito di cui all'art. 3, comma 1, lettera b) decreto
legislativo n.  147/2017,  relativo  alla  condizione  economica  del
richiedente, nonche' quello di cui all'art. 2, comma 1,  lettera  a),
decreto legislativo n. 147/2017 essendovi  nel  nucleo  familiare  un
componente di eta' minore di anni 18 (tutte circostanze documentate e
comunque non contestate dalle parti convenute). 
    Ne' rileva il fatto che la domanda sia stata presentata in  forma
cartacea, anziche' telematicamente, trattandosi solo di irregolarita'
formale, peraltro imputabile alla strutturazione del sistema, che non
incide sul riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto. 
    L'art. 2, comma 2, decreto legislativo n. 147/2017  definisce  il
«ReI» come «una misura  a  carattere  universale,  condizionata  alla
prova dei mezzi  e  all'adesione  a  un  progetto  personalizzato  di
attivazione  e  di  inclusione  sociale  e   lavorativa   finalizzato
all'affrancamento dalla condizione  di  poverta'»  e  la  «poverta'»,
nella definizione offerta dall'art. 1, comma 1, lettera  a),  decreto
legislativo n. 147/2017, e' quella «condizione del  nucleo  familiare
la cui situazione economica non permette di disporre dell'insieme  di
beni e servizi necessari a condurre un  livello  di  vita  dignitoso,
come definita, ai soli fini dell'accesso al  reddito  di  inclusione,
all'art. 3». 
    Il richiamato art. 3, decreto legislativo n. 147/2017, in  ordine
alla condizione economica  necessaria  per  l'accesso  al  beneficio,
prevede che il nucleo familiare  del  richiedente  debba  «essere  in
possesso congiuntamente di: 1)  un  valore  dell'ISEE,  in  corso  di
validita', non superiore ad euro 6.000; 2) un  valore  dell'ISRE  non
superiore ad euro 3.000; 3) un  valore  del  patrimonio  immobiliare,
diverso dalla casa di abitazione, non superiore ad euro 20.000; 4) un
valore del patrimonio mobiliare, non superiore ad una soglia di  euro
6.000, accresciuta di  euro  2.000  per  ogni  componente  il  nucleo
familiare successivo al primo, fino ad un massimo di euro 10.000;  5)
un valore  non  superiore  alle  soglie  di  cui  ai  numeri  1  e  2
relativamente  all'ISEE  e  all'ISRE  riferiti  ad   una   situazione
economica aggiornata nei casi e secondo  le  modalita'  di  cui  agli
articoli 10 e 11; c) con riferimento al godimento di beni durevoli  e
ad altri indicatori del tenore di  vita,  il  nucleo  familiare  deve
trovarsi  congiuntamente  nelle  seguenti   condizioni:   1)   nessun
componente  intestatario  a   qualunque   titolo   o   avente   piena
disponibilita' di autoveicoli, ovvero  motoveicoli  immatricolati  la
prima volta nei ventiquattro mesi  antecedenti  la  richiesta,  fatti
salvi gli autoveicoli  e  i  motoveicoli  per  cui  e'  prevista  una
agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilita' ai sensi
della  disciplina  vigente;  2)  nessun  componente  intestatario   a
qualunque titolo o avente piena disponibilita' di navi e imbarcazioni
da diporto di cui all'art. 3, comma 1,  del  decreto  legislativo  18
luglio 2005, n. 171». 
    La condizione di poverta' e  di  bisogno  economico  deve  essere
integrata dalla sussistenza  di  un  altro  requisito,  rappresentato
dalla presenza, nel nucleo familiare, di almeno  una  delle  seguenti
condizioni: «a) presenza di un componente di eta' minore di anni  18;
b) presenza di una  persona  con  disabilita'  e  di  almeno  un  suo
genitore ovvero di un suo tutore; c) presenza di una donna  in  stato
di gravidanza accertata. La documentazione medica attestante lo stato
di gravidanza e la data presunta  del  parto  e'  rilasciata  da  una
struttura pubblica e allegata alla richiesta del beneficio, che  puo'
essere presentata non prima di quattro mesi dalla data  presunta  del
parto; d) presenza di almeno un lavoratore di eta' pari o superiore a
55 anni, che si trovi in stato di disoccupazione» (art. 3,  comma  2,
decreto legislativo n. 147/2017). 
    In tema di diritti essenziali, la Corte  costituzionale  ha  gia'
avuto  modo  di  chiarire  che   la   valutazione   in   termini   di
«essenzialita'» della prestazione deve essere effettuata  «alla  luce
della configurazione normativa e della funzione sociale»  che  questa
e' chiamata a svolgere nel sistema, verificando se «integri o meno un
rimedio  destinato  a  consentire  il  concreto  soddisfacimento  dei
"bisogni primari"» inerenti alla stessa sfera di tutela della persona
umana, che e' compito della Repubblica  promuovere  e  salvaguardare;
rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perche' garanzia
per  la  stessa  sopravvivenza  del  soggetto.  D'altra   parte,   la
giurisprudenza  della  Corte  europea  dei   diritti   dell'uomo   ha
sottolineato  come,  «in  uno  Stato   democratico   moderno,   molti
individui, per tutta o parte della loro vita, non possono  assicurare
il loro sostentamento che grazie a delle prestazioni di  sicurezza  o
di previdenza sociale». Sicche', «da parte  di  numerosi  ordinamenti
giuridici  nazionali  viene  riconosciuto  che  tali  individui  sono
bisognosi di una certa sicurezza e prevedono, dunque,  il  versamento
automatico di prestazioni,  a  condizione  che  siano  soddisfatti  i
presupposti stabiliti per il riconoscimento dei diritti in questione»
(la gia' citata decisione sulla  ricevibilita'  del  6  luglio  2005,
Staic ed altri contro Regno Unito). Ove, pertanto, si versi  in  tema
di provvidenza  destinata  a  far  fronte  al  «sostentamento»  della
persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri  regolarmente
soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi
dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con
il principio sancito  dall'art.  14  della  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che, come  si
e' detto, e' stata in piu' circostanze offerta  dalla  Corte  europea
dei diritti dell'uomo.» (cosi', in motivazione, Corte  costituzionale
sentenza n. 187/2010). 
    Non  v'e'  dubbio  che  il  reddito  di  inclusione,  in   quanto
«finalizzato all'affrancamento dalla condizione  di  poverta'»  debba
essere iscritto  tra  i  diritti  essenziali  nei  limiti  e  per  le
finalita', appunto essenziali, che la Corte  costituzionale  -  anche
alla luce degli enunciati della Corte europea dei diritti dell'uomo -
«ha additato come parametro di ineludibile uguaglianza di trattamento
tra cittadini e stranieri regolarmente  soggiornanti  nel  territorio
dello Stato» (cosi', in motivazione, Corte costituzionale sentenza n.
187/2010). A cio' non e' ostativo il  fatto  che  non  si  tratti  di
prestazione  di  invalidita',  in  quanto  il  nucleo   dei   diritti
essenziali deve essere certamente delineato con riguardo  all'attuale
e mutato contesto economico/sociale, tale, come sopra evidenziato, da
indurre il legislatore ad introdurre prestazioni nuove, finalizzate a
fronteggiare la situazione di vera e propria  poverta'  che  colpisce
numerosi nuclei familiari. 
    Per  tali   ragioni,   come   correttamente   evidenziato   dalla
ricorrente, il diritto ad un'esistenza libera  e  dignitosa  e'  oggi
precondizione del lavoro e non viceversa, per cui in quest'ottica  si
deve oggi procedere ad una lettura coordinata degli articoli 2,  3  e
38 Cost. 
    Nell'odierno sistema economico/sociale il lavoro,  molto  spesso,
non e' piu' sufficiente ad  assicurare  agli  individui  un'esistenza
libera e dignitosa e per tale ragione lo Stato interviene  sempre  di
piu' con misure di sostegno e supporto. 
    Gia' nella  decisione  n.  40/2013  la  Corte  costituzionale  ha
ribadito, sulla scorta di  precedenti  pronunce,  che  nel  caso  «di
provvidenze destinate al sostentamento  della  persona  nonche'  alla
salvaguardia di  condizioni  di  vita  accettabili  per  il  contesto
familiare (...) - qualsiasi  discrimine  fra  cittadini  e  stranieri
legalmente  soggiornanti  nel  territorio  dello  Stato,  fondato  su
requisiti diversi da quelli previsti per la generalita' dei soggetti,
finisce  per  risultare  in  contrasto  con  il  principio   di   non
discriminazione di cui all'art. 14 della Convenzione europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
avuto riguardo alla interpretazione rigorosa che  di  tale  norma  e'
stata offerta dalla giurisprudenza della Corte europea». 
    Infine, che la condizione di «poverta'»  impedisca  il  godimento
dei diritti essenziali e' un dato di fatto, tant'e'  che,  pur  nella
novita' delle previsioni di cui al decreto legislativo  n.  147/2017,
in molteplici disposizioni, tanto costituzionali, quanto  legislative
affiora il concetto di poverta' economica come elemento  ostativo  al
godimento  di  diritti  fondamentali,  e  che  lo  Stato   cerca   di
contrastare,  attraverso  il   principio   di   solidarieta',   anche
economica, di cui all'art. 2 Cost. 
    E' stato correttamente osservato in  dottrina  come  la  poverta'
economica compaia in molteplici previsioni costituzionali, primo  fra
tutti l'art. 3, comma 2, Cost., che identifica anche  negli  ostacoli
«di ordine economico» le barriere da rimuovere. 
    Ai «non abbienti»  l'art.  24,  comma  3,  Cost.  assicura,  «con
appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi in giudizio». 
    La formazione della  famiglia  e  l'adempimento  dei  conseguenti
compiti sono agevolati, secondo l'art. 31, primo  comma,  Cost.  «con
misure economiche e altre provvidenze», mentre «cure  gratuite»  sono
garantite «agli indigenti» dall'art. 32, primo comma, Cost. 
    L'inabilita' al lavoro, tale da  impedire  il  conseguimento  dei
mezzi necessari per vivere, determina, in  base  all'art.  38,  primo
comma, Cost. il «diritto al mantenimento e all'assistenza sociale»  e
«mezzi adeguati alle loro  esigenze  di  vita»  sono  assicurati  dal
secondo comma del medesimo art. 38 Cost.  ai  lavoratori  colpiti  da
infortuni,  malattia,   invalidita',   vecchiaia   e   disoccupazione
involontaria. 
    La Costituzione e' quindi intrisa di disposizioni che si  pongono
l'obiettivo di  contrastare  la  poverta'  economica,  ovvero  quella
condizione  di  assenza  dei  mezzi  finanziari  tale   da   impedire
l'esercizio dei diritti fondamentali e di  godere,  conseguentemente,
di una esistenza libera e dignitosa. 
    In base  a  queste  considerazioni  non  puo'  dubitarsi  che  la
prestazione di cui trattasi, in quanto finalizzata «all'affrancamento
dalla  condizione  di  poverta'»  abbia  come  obiettivo  quello   di
assicurare a determinati nuclei familiari  quell'esistenza  libera  e
dignitosa che tutti, in uno Stato democratico, dovrebbero avere,  per
cui certamente si tratta di prestazione interna al nucleo dei bisogni
essenziali che, in quanto tale, non puo' subire limitazioni  (tant'e'
che il ReI, secondo il comma 13 dell'art. 2 del  decreto  legislativo
n. 147/2017 costituiva  «livello  essenziale  delle  prestazioni,  ai
sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m),  della  Costituzione,
nel limite delle risorse disponibili nel Fondo Poverta'»). 
    Pertanto,  qualora  lo  Stato  decida  di   erogare   determinate
prestazioni  riconducibili  nell'ambito  della  «essenzialita'»,   la
scelta legislativa  di  introdurre  particolari  limitazioni  per  il
godimento di tali diritti fondamentali  della  persona,  riconosciuti
invece  ai  cittadini  dell'Unione,  e'  soggetta  ad  un  vaglio  di
legittimita'   costituzionale   (cosi',   in    motivazione,    Corte
costituzionale sentenza n. 187/2010 nel richiamare la sua sentenza n.
306 del 2008). 
    Di conseguenza, per le  suesposte  argomentazioni  la  previsione
dell'art. 3, decreto legislativo n.  147/2017,  nella  parte  in  cui
prevede,  per  l'accesso  al  ReI  (reddito  di  inclusione),  che  i
cittadini di nazionalita' extra UE  debbano  essere  titolari  di  un
permesso di soggiorno di lungo periodo, escludendo gli  stranieri  in
possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o  per  altri
motivi), si pone in contrasto con i principi di cui agli articoli  2,
3, 31, 38, 117  della  Costituzione,  nonche'  con  l'art.  14  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali. 
    In ogni caso, quandanche si trattasse di prestazione  esterna  al
nucleo  dei  bisogni  essenziali,  la  limitazione  contenuta   nella
disposizione censurata sarebbe comunque irragionevole e quindi ancora
una volta in contrasto con l'art. 3 Cost. 
    Infatti, se  e'  vero  che  il  legislatore  puo'  legittimamente
decidere di circoscrivere la platea dei  beneficiari  di  determinate
prestazioni  sociali,  l'eventuale  limitazione  «deve   pur   sempre
rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3  Cost.»  e  «tale
principio puo' ritenersi rispettato solo qualora  esista  una  "causa
normativa" della  differenziazione,  che  sia  "giustificata  da  una
ragionevole correlazione tra  la  condizione  a  cui  e'  subordinata
l'attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti  che  ne
condizionano il riconoscimento e ne definiscono la  ratio"  (sentenza
n. 107 del 2018). Una simile  ragionevole  causa  normativa  puo'  in
astratto consistere nella richiesta di  un  titolo  che  dimostri  il
carattere non episodico  o  di  breve  durata  della  permanenza  sul
territorio dello Stato: anche in questi casi, peraltro,  occorre  pur
sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la  richiesta  e
le situazioni di bisogno o  di  disagio,  in  vista  delle  quali  le
singole prestazioni sono state previste (sentenza n. 133  del  2013)»
(cosi', in motivazione, Corte costituzionale,  sentenza  n.  166  del
2018). 
    Con la citata sentenza, la Corte costituzionale, con  riferimento
ad una  prestazione  diretta  a  soddisfare  il  soddisfacimento  dei
bisogni abitativi primari di una persona che versasse  in  condizione
di poverta', ha ritenuto irragionevole il  discrimine  rappresentato,
per gli stranieri, dalla lunga protrazione nel  tempo  del  richiesto
radicamento territoriale  (sentenza  n.  133  del  2013)  (cosi',  in
motivazione, Corte costituzionale, sentenza n. 166 del 2018). 
    Nella  situazione  in  esame,  la  norma  gia'  contempla(va)  il
requisito del radicamento, essendo richiesto dall'art.  3,  comma  1,
lettera a), n. 2, decreto legislativo n. 147/2017 l'essere «residente
in Italia, in via continuativa, da almeno  due  anni  al  momento  di
presentazione della domanda»,  per  cui  l'esclusione  dei  cittadini
extracomunitari sprovvisti del permesso di  lungo  soggiorno  va,  di
fatto, a penalizzare  proprio  i  nuclei  familiari  piu'  bisognosi,
tradendo l'intento dichiarato dal legislatore. 
    Infatti, molto spesso, i cittadini extracomunitari non riescono a
richiedere il permesso di lungo soggiorno, in quanto titolari  di  un
reddito  inferiore  a  quello  (pur  basso)  prescritto  a  tal  fine
dall'art. 9 testo unico immigrazione (che deve essere  non  inferiore
all'assegno sociale, nel 2018, pari ad euro 5.824,00). 
    Quindi, assai di frequente i cittadini extracomunitari sprovvisti
del permesso di soggiorno di lungo periodo sono piu'  poveri  e  piu'
bisognosi di quelli che ne sono provvisti, ma  nonostante  cio'  sono
stati  esclusi  dalla  possibilita'  di  accedere   ad   una   misura
dichiaratamente    finalizzata     all'inserimento     sociale     ed
all'affrancamento dalla poverta'. 
    Nella  presente  situazione  valgono,  a  maggior   ragione,   le
argomentazioni  gia'  recentemente   evidenziate   dalla   Corte   di
cassazione  con  l'ordinanza  di  rimessione  n.  16164/19   relativa
all'art.  l,  comma  125,  legge  n.  190/2014  con  cui  sono  stati
irragionevolmente esclusi dal beneficio i nati o gli adottati tra  il
1° gennaio  2015  ed  il  31  dicembre  2017  da  genitori  cittadini
extracomunitari che  fruiscono  di  redditi  non  superiori  ad  euro
7.000,00 o ad euro 25.000,00 legalmente residenti in Italia  in  base
ad idoneo permesso di soggiorno e lavoro, ma sprovvisti del  permesso
di lungo soggiornanti. 
    Nella fattispecie in esame la disparita' di trattamento e  quindi
l'irragionevolezza della norma e' ancor piu' evidente laddove,  oltre
a richiedersi il  requisito  del  radicamento  nello  Stato  italiano
attraverso  i  due  anni  di  residenza  continuativa,   si   ritiene
necessario, per i cittadini extracomunitari,  il  permesso  di  lungo
soggiorno, cosi' escludendo tutti coloro  che  ne  siano  sprovvisti,
spesso per ragioni di reddito, benche'  residenti  legittimamente  da
molti anni nel territorio italiano. 
    Neppure la disposizione oggetto di censura nel presente giudizio,
al pari di quella vagliata dalla Corte di cassazione, si raccorda con
la previsione dell'art. 42, decreto legislativo n. 286/1998  che,  in
materia di assistenza  sociale,  riconosce  la  generale  parita'  di
trattamento  tra  i  cittadini  italiani  e  quelli   extracomunitari
titolari di permesso di soggiorno e lavoro validi per almeno un anno. 
    Come  gia'  rilevato,  si  tratta,  pure  in  tal  caso,  di  una
disciplina contrastante con il principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 Cost., essendo stato introdotto un elemento di distinzione
arbitrario, nella mancanza di alcuna ragionevole correlazione tra  la
residenza protratta  per  il  tempo  necessario  all'ottenimento  del
permesso di lungo soggiorno e la situazione di disagio economico  che
il legislatore ha posto alla base della provvidenza. 
    Ne' si comprende  la  ragione  per  cui  il  legislatore  non  ha
ritenuto  sufficiente,  quale  elemento  indicativo  di  uno  stabile
radicamento sul territorio, il requisito della residenza continuativa
biennale, pretendendo il permesso di lungo soggiorno. 
    Anche il reddito di inclusione era un  beneficio  assai  limitato
nel tempo, diretto  a  fronteggiare  una  situazione  contingente  di
bisogno, nell'ottica di un reinserimento  economico/sociale,  tant'e'
che era «riconosciuto per un periodo  continuativo  non  superiore  a
diciotto mesi», non poteva essere rinnovato se non  trascorsi  almeno
sei mesi da quando ne era cessato il godimento ed in caso di  rinnovo
la durata era fissata, in sede di prima applicazione, per un  periodo
non superiore a dodici mesi (art. 4, comma 5, decreto legislativo  n.
147/2017). 
    Ne', come evidenziato dalla Corte di cassazione  con  l'ordinanza
n. 16164/19, rilevano in questa sede le argomentazioni  svolte  dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 50 del 2019  con  riferimento
all'assegno sociale, trattandosi di una misura differente, rivolta  a
chi ha compiuto 65 anni di eta'  e  che  persegue  finalita'  diverse
dalla prestazione in esame che afferisce, come osservato,  a  bisogni
primari ed essenziali della persona. La disposizione si  pone  quindi
in contrasto, oltre che con l'art. 3 Cost., con gli articoli 20,  21,
33 e 34 CDFUE che enunciano il principio  di  uguaglianza  e  di  non
discriminazione, garantiscono «la protezione della famiglia sul piano
giuridico, economico e sociale» (art. 33,  1°  comma,  CDFUE)  e  «il
diritto all'assistenza sociale e  all'assistenza  abitativa  volte  a
garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di
risorse sufficienti,  secondo  le  modalita'  stabilite  dal  diritto
comunitario e le legislazioni»,  cio'  «al  fine  di  lottare  contro
l'esclusione sociale e la poverta'» (art. 34, comma 3, CDFUE). 
    A nulla rileva, inoltre,  il  fatto  che  la  legge  richieda  un
progetto personalizzato,  poiche'  questo  si  colloca  in  una  fase
successiva alla sussistenza di tutti i requisiti preliminari, tra cui
rientra l'aspetto relativo alla platea dei beneficiari. 
    Deve  infine  escludersi  che  la  prestazione  in  esame  ricada
nell'ambito di operativita' della direttiva 2011/18,  non  rientrando
nell'elenco dei rischi di cui all'art. 3 del regolamento n. 883/04. 
    Il regolamento  si  applica  infatti  a  «tutte  le  legislazioni
relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti: 
        a) le prestazioni di malattia; 
        b) le prestazioni di maternita' e di paternita' assimilate; 
        c) le prestazioni d'invalidita'; 
        d) le prestazioni di vecchiaia; 
        e) le prestazioni per i superstiti; 
        f) le  prestazioni  per  infortunio  sul  lavoro  e  malattie
professionali; 
        g) gli assegni in caso di morte; 
        h) le prestazioni di disoccupazione; 
        i) le prestazioni di pensionamento anticipato; 
        j) le prestazioni familiari» (art. 3,  comma  1,  regolamento
CEE 883/04). 
    Secondo l'art. 1, lettera  z)  del  regolamento  per  prestazioni
familiari si intendono «tutte le prestazioni in natura  o  in  denaro
destinate a compensare  i  carichi  familiari,  ad  esclusione  degli
anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita
o di adozione menzionati nell'allegato I». 
    La finalita' della prestazione in esame, diversamente  da  altre,
non pare quella di compensare i carichi  familiari,  poiche'  il  suo
riconoscimento  non  e'  subordinato  alla  sussistenza   di   nucleo
familiare numericamente consistente, ma alla situazione  di  poverta'
del nucleo familiare, che puo' essere semplicemente composto anche da
solo due persone, come nel caso dell'art. 3,  comma  2,  lettera  c),
decreto legislativo n. 147/2017 (che richiede la presenza di due sole
persone, una delle quali in stato di gravidanza accertata). 
    Cio' che si comprende da una disamina  complessiva  del  disposto
normativo  e'  che  il  reddito  di  inclusione  aveva  la  chiara  e
dichiarata finalita' di aiutare nuclei  familiari  in  situazione  di
poverta' ed  in  cui  questa  situazione  di  poverta'  economica  si
accompagnava ad una situazione di  particolare  svantaggio  derivante
dalla presenza, nel  nucleo  familiare,  di  soggetti  deboli  e  non
lavorativamente attivi,  come  figli  minori,  donne  in  gravidanza,
disabili o disoccupati. 
    Non si tratta pero' di  una  misura  di  sostegno  finalizzata  a
compensare carichi familiari, ma a sollevare dallo stato  di  bisogno
nuclei familiari anche piccoli,  affrancandoli  dalla  condizione  di
poverta' attraverso  l'erogazione  di  un  sussidio  economico  e  la
predisposizione di un «progetto personalizzato di  attivazione  e  di
inclusione sociale e lavorativa»,  da  qui  l'inapplicabilita'  della
direttiva 2011/98. 
    In ogni caso, quand'anche la direttiva 2011/98 fosse applicabile,
cio' non impedirebbe un vaglio di legittimita' della disposizione per
le  motivazioni  gia'  esposte  dalla  Corte  di  cassazione  con  la
richiamata ordinanza n. 16164/19, che si intendono qui richiamate. 
    Si rende quindi  necessario  investire  la  Corte  costituzionale
della questione di legittimita' costituzionale dell'art 3,  comma  1,
lettera a), n. 1), decreto legislativo n. 147/2017 nella parte in cui
prevede, per l'accesso al ReI (reddito di inclusione) che i cittadini
di nazionalita' extra UE debbano essere titolari di  un  permesso  di
soggiorno di  lungo  periodo,  escludendo  gli  stranieri  legalmente
soggiornanti poiche' in possesso di permesso di soggiorno per  motivi
di  lavoro  (o  per  altri  motivi),  norma  che,  in  virtu'   delle
considerazioni sopra esposte, e' rilevante nell'ambito  del  giudizio
instaurato dalla ricorrente. 
    Inoltre la questione non appare manifestamente  infondata,  posto
che  la  norma  introduce   una   ingiustificata   ed   irragionevole
discriminazione a sfavore dei cittadini di paesi terzi legittimamente
soggiornanti nel territorio dello Stato italiano, ma  sprovvisti  del
permesso di lungo soggiorno, in violazione degli articoli 2,  3,  31,
38, 117 della Costituzione, dell'art. 14 Convenzione europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  e
degli articoli 20, 21, 33 e 34 CDFUE.